Raptus

New York City. Tre mesi prima.

Il Central Park non è un posto raccomandabile dalle sette del pomeriggio in poi. Tutti sanno che l’enorme traffico di droga e prostituzione, trasforma quell’immensa area verde frequentata di giorno da famiglie con bambini e da anziani che si rilassano dopo una giornata rinchiusi in casa, in un luogo capace di sfidare in quanto a presenza di malavita il peggior pub del Bronx.

Proprio in questo scenario, il giovane Malcolm McDoweld s’imbatteva tutti i giorni mentre faceva jogging. Mantenersi in forma era molto importante per Malcolm, dato che trascorreva innumerevoli ore in ufficio davanti al suo computer. Sabati e domeniche compresi. Un giorno come tanti altri stava percorrendo il quarto miglio dalla parte di Washington Street, diretto ad ovest, quando delle urla spezzate catturarono la sua attenzione. Fortunatamente quella sera non aveva con sé il suo iPod nelle orecchie. Si fermò all’istante, cercando di percepire ogni singolo rumore e realizzare da dove provenissero quelle urla, credendo di averle immaginate. Incuriosito, ma allo stesso tempo spaventato, s’incamminò alla sua destra, quando sentì di nuovo una flebile voce invocare aiuto. Era una voce femminile. Con passo felpato, si avvicinò ad un ammasso di cespugli, dai quali provenivano le urla, continuamente spezzate, come se qualcuno stesse tappando la bocca alla ragazza. Dopo qualche istante, ormai deciso ad intervenire e convinto che stava assistendo ad una violenza, Malcolm si fiondò verso i cespugli, scansandoli con le mani.

Quando vide le due persone che si paravano di fronte a sé, semidistese sull’erba tagliata da poco, un senso di rabbia crescente e di completa sorpresa lo pervasero. Davanti a lui c’era un uomo, sulla trentina, completamente spettinato e con la camicia strappata; al suo fianco, distesa per terra, una ragazza, con il volto coperto dai lunghi capelli neri. Il cuore del ragazzo iniziò a battere come un treno in corsa. Non voleva crederci, ma l’evidenza si mostrò in tutta la sua cruda realtà, nel momento in cui la ragazza si scostò i capelli dal viso. «Sa… Sarah…» sussurrò Malcolm inerme alla vista di quel dolce volto marchiato dalla più completa paura. «Non può essere…» continuò con un filo di voce. «Malcolm… stavo venendo da te... volevo farti una sorpresa…» sussurrò lei con le lacrime agli occhi e la voce tremante. A quel punto Malcolm McDoweld perse completamente la sua coscienza. La rabbia, il dolore, presero il sopravvento. L’uomo, disteso per terra, era incapace di agire, vedendo di fronte a lui un ragazzo perdere completamente la ragione. Il sudore ricopriva gran parte del suo corpo, e la sua mente si era ormai offuscata. Non riusciva a pensare più a nulla di razionale, solo a sfogare la sua crescente rabbia sull’uomo, patetico ai suoi occhi, disteso davanti a lui. Da quel momento quello non fu più Malcolm McDoweld, ma solo dolore represso per anni, sfogato su un povero disgraziato che aveva osato toccare la sua ragazza. Sarah Park assisteva angosciata alla vista del suo ragazzo che riduceva in fin di vita l’uomo che aveva tentato di violentarla qualche istante prima. Da una parte era contenta, sollevata; dall’altra provava un immenso dolore. Per il suo Malcolm. Sapeva di averlo perso per sempre.

I giorni seguenti furono molto duri da sopportare per Malcolm, costretto a nascondersi dalla polizia dell'intera città impegnata nella caccia all'uomo che aveva ucciso con il solo uso delle mani in pieno Central Park. Un ‘rabbioso omicida a sangue freddo’ era stato definito dai media. Malcolm non si riconosceva in questa descrizione che aveva sentito poco prima passando davanti ad un negozio sulla quindicesima mentre cercava un posto sicuro dove stare. Sapeva però dentro di sé che se si fosse ripresentata la stessa situazione di quella sera, avrebbe agito esattamente nello stesso modo. Aveva ormai paura di sé stesso.

Esattamente quattro giorni dopo l’accaduto, Malcolm McDoweld giaceva in un appartamento abbandonato nel Bronx, il quartiere meno raccomandabile di tutta la Grande Mela. Aveva bevuto per due giorni di fila, affogando la sua frustrazione nell’alcol, sperando di dimenticare tutto. Era solo, ormai senza uno scopo. Ripensava a Sarah, a che fine avesse fatto. Si domandava se lei, alla vista del suo ragazzo massacrare e poi uccidere l’uomo che la stava per violentare, fosse ancora dalla sua parte. Sapeva di aver sbagliato, ma provava un senso di gioia, di pace, mai provato prima. Era fiero, dopotutto, di aver salvato la sua ragazza.

Ad un certo punto, la porta del monolocale cadde sotto un violento calcio dato dall’esterno. Malcolm si riparò contro un muro, ormai convinto che la polizia lo avesse trovato. Immaginò tutta la sua vita rinchiuso in un carcere di massima sicurezza, insieme ad altri pluri-assassini. Chiuse gli occhi e si lasciò andare. «Malcolm!» si sentì chiamare. «Malcolm alzati! Devi venire con noi!» urlava una voce sconosciuta. Il ragazzo aprì leggermente gli occhi e notò due uomini di fronte a lui che lo scuotevano per farlo riprendere. Non avevano uniforme e non si erano qualificati in alcun modo. Erano forse dei polizziotti in borghese? «Malcolm non siamo della polizia, ma possiamo aiutarti» disse uno dei due, mentre con l’aiuto dell’altro tiravano su il ragazzo. «Chi siete, cosa volete da me…» farfugliò lui, trascinandosi verso l’uscita dell’appartamento sorretto dai due sconosciuti. «Siamo stati mandati a prenderti. Noi possiamo curarti» rispose l’uomo che stava alla sua destra. Ti portiamo in un posto sicuro, sta tranquillo. Lì nessuno ti troverà». «Ok» farfugliò confuso Malcolm, senza rendersi realmente conto di ciò che stava accadendo. Mentre uscivano dall’edificio e si dirigevano verso un’auto scura dall’altra parte della strada, il ragazzo lesse, con gli occhi ancora socchiusi, la targhetta che uno dei due tizi aveva attaccata alla giacca: “S-7”. “Cosa vorrà dire?” si chiese Malcolm.

I tre montarono in macchina e partirono a tutta velocità.