Il vecchio bar di Joe Cabott non era certo tra i più raccomandabili della cittadina di Serenity, nel Wisconsin: abituale ritrovo di alcolisti che preferivano affogare le loro vite nell’alcol invece di affrontare i problemi che la vita stessa presentava, era ormai in attività da molto tempo.
Il proprietario, un uomo robusto di mezz’età di nome Joe, passava le giornate nel suo bar. La sua unica casa.
Proprio in quel locale, in una serata che preannunciava pioggia a fiumi, s’incontrarono Bobby Dawson e il suo amico Sonny Cry. «Beh, devo dirtelo amico» disse Bobby sorseggiando un boccale di birra fresca, seduto insieme a Sonny in un tavolino in fondo al locale, «questa volta la mollo sul serio!» «Quanto tempo è che dici la stessa cosa?» chiese in tono sarcastico l’amico, portandosi alla bocca una manciata di noccioline. «Devi lasciarla. Quella è una puttana!» affermò. Bobby stava per contraddirlo ma si fermò: «Hai ragione. Devo mollarla al più presto!» disse convinto. «Bene amico» esclamò Sonny, alzando il suo boccale invitando l’amico ad un brindisi. Bobby lo imitò. «Brindiamo ad una vita migliore!» esclamò sorridente Bobby. «Cin, ci…» Sonny si interruppe, lo sguardo fisso al di là del suo amico, verso l’ingresso del locale. Bobby incuriosito si voltò.
Un uomo di mezza statura, capelli biondi a caschetto, con uno strano camice addosso, era appena entrato nel bar. Subito tutti i presenti lo squadrarono. Non capitava spesso di vedere un tipo con la faccia da bravo ragazzo in quel posto dimenticato da dio. L’uomo, avanzava a fatica, sembrava a prima vista sotto l’effetto di stupefacenti, ma in viso era perfettamente lucido. Indossava un camice bianco che gli cadeva fino alle ginocchia, e uno strano braccialetto al polso destro. Si sedette al bancone e ordinò un doppio whisky con ghiaccio.
«Chi diavolo è quello?» chiese Sonny. «Sembra appena uscito da un manicomio». Sonny Cry non sapeva quanto avesse ragione. «Andrò a sfotterlo un po’» disse poi, «così mi distraggo, almeno» concluse alzandosi dal tavolo e dirigendosi verso il bancone. «Hey amico» parlò diretto al ragazzo che ancora tutti stavano squadrando con sospetto. «Ti è accaduto qualcosa in particolare?» «No» sussurrò lui mentre sorseggiava il suo whisky. Pareva alquanto depresso. «Tutto a posto grazie» concluse senza tante spiegazioni. «Guarda che se c’è qualcosa che non va puoi dirmelo» disse cordiale Sonny. «Sai… non se ne vedono di ragazzi come te in posti come questi». «Perché, cos’ho di diverso da voi?» domandò, senza distogliere lo sguardo dal bicchiere di fronte a lui. «Beh, tu mi sembri un bravo ragazzo. Tutto qui» rispose. «Quindi se ti dicessi che forse io sono la persona peggiore che si trova ora in questo bar, tu non mi crederesti?» chiese piano. «Mi sarebbe difficile crederlo, si. A parte il tuo abbigliamento, credo che tu sia un tipo a posto» fu la risposta di Sonny. «Posso solo dirti che ti stai sbagliando. Sbagliando di grosso» disse lo sconosciuto con tono cupo. «Ti consiglio di andartene da qui. Mi sei simpatico». «Cosa?» Domandò Sonny sorpreso. « E per quale motivo? » «Se ti interessa continuare a vivere» disse secco il ragazzo, voltandosi per la prima volta verso il suo interlocutore. «Vattene via. Ti prego».
Sonny Cry in quel preciso istante provò un brivido di terrore. C’era qualcosa di strano in quel ragazzo. Qualcosa di anormale. Si alzò lentamente dal bancone e si diresse verso l’uscita con il suo amico Bobby Dawson. In quel momento, il ragazzo misterioso si alzò in piedi, estrasse da sotto il camice una pistola Magnum calibro quarantaquattro ed iniziò a far fuoco su qualsiasi cosa si movesse. I presenti non fecero in tempo a rendersi conto di quello che stava accadendo, che si ritrovarono con un pallottola in testa. Dopo qualche secondo, il bar di Joe Cabott appariva ormai come una macelleria. I corpi di una ventina di persone giacevano in enormi pozze di sangue, insieme a frammenti di bottiglie e schegge di legno. «Bene» sussurrò il ragazzo, rimettendo a posto l’arma. «E sono venti. Non speravo di fare tanti punti in un colpo solo!» esclamò incamminandosi verso l’uscita. «Nessuno può battermi al Gun Game! Nessuno può battere Donald Lowell!» Aprì la porta e si catapultò fuori da quel che rimaneva del vecchio bar di Joe Cabott.
Una vecchia Chevrolet del sessantotto, sfrecciava a tutta velocità per le piccole strade di Serenity, con a bordo Donald Lowell, ancora su di giri per quanto successo poco prima. «Sì!» Urlò mentre svoltava a destra. «Con questo colpo sono sicuramente in vantaggio! Così imparano a dubitare di me. Sono il numero uno in questo gioco, e questa sera l’ho dimostrato. Ancora uno, ancora un punto, e sarò il campione indiscusso del Gun Game!» Urlava eccitato dentro l’auto.
Ad un tratto, dopo aver imboccato una discesa verso la parte ovest della città, Donald inchiodò di colpo, catturato da una magnifica visione a pochi metri da dove si trovava. Rallentò fino a fermarsi e scese dalla macchina.
«Non ci credo…» sussurrò tra sé e sé. «Questa è proprio la mia giornata fortunata. Prima venti punti in un colpo solo e ora questa!» esclamò mentre si dirigeva saltellando dall’altra parte della strada, dove era parcheggiata una splendida Mustang del settantasette color blu notte. Era sempre stata l’auto dei suoi sogni. Il ragazzo, esperto ladro d’auto, forzò la serratura in meno di cinque secondi, montò in macchina e accese il motore con pari destrezza. «Si parte!» esclamò, fomentandosi ancora di più. «Verso la vittoria!» E sfrecciò in direzione ovest, pronto al prossimo assalto.
Serenity, Wisconsin. Un anno prima.
Nessuno poteva immaginare che una tranquilla cittadina come Serenity fosse popolata da una gioventù malata fino a quel punto. Una società perfetta, con una bassa incidenza criminale, non avrebbe mai potuto prevedere che i suoi giovani, il futuro della città stessa, fossero cresciuti tutti con qualche rotella fuori posto.
Questa educazione, se davvero la colpa poteva essere imputata alle famiglie dei giovani, si manifestò in tutta la sua deviazione un tranquillo giorno di settembre come tanti altri: un gruppo di ragazzi s’incontrò in un vecchio magazzino abbandonato, dopo raver risposto ad un annuncio trovato su internet:
“Chiunque abbia voglia di provare un divertimento nuovo, di realizzarsi e di sfidare altri ragazzi come voi, si presenti il venti di settembre prossimo al vecchio magazzino di Jason Street. Io, Arnold Forrew, e altri ragazzi di Serenity, stanchi dei soliti videogiochi e di altri passatempi tradizionali, abbiamo dato vita ad un nuovo, entusiasmante, gioco in prima persona. I protagonisti sarete voi, e rischierete tutto per vincere la partita!
I vostri profeti,
Arnold e Kira.”
In molti avevano accettato di recarsi al luogo dell’incontro, alcuni per pura curiosità, altri convinti di aver trovato qualcosa di meglio da fare rispetto alla noiosa vita da cittadina.
Tra tutti i ragazzi presenti al primo incontro del Gun Game, così era stato battezzato il nuovo gioco, c’era anche un ragazzo di nome Donald Lowell: tranquillo ma irrequieto, aveva deciso di partecipare per puro spirito competitivo. Era convinto di poter battere chiunque. E lo dimostrò.
Donald Lowell sfrecciava sulla sua nuova auto, alla ricerca di chi sacrificare per ottenere il punto che gli avrebbe consegnato la vittoria del del Gun Game. Il gioco si concludeva non appena un participante avesse ottenuto un punteggio pari a ventuno. Ogni persona uccisa valeva un punto. Questa volta, però, Donald non si rendeva conto che lui era l’unico partecipante. Non c’erano altri concorrenti, era solo contro sé stesso. L’eccesso di vitamina 3X-3 nel suo sangue, dato per errore dal dottor Robins, aveva fatto sbloccare la cura a cui Lowell era stato sottoposto, facendolo ritornare al suo divertimento preferito prima di essere internato a MADHOUSE. L’unica falla del reset celebrale inverso, come professato dal dottor Kabowsky, si era manifestata.
L’agente Francis Kurtighan, era stato assegnato quel pomeriggio al pattugliamento della statale 23. Dopo alcune ore passate a sorvegliare il traffico e ad assicurarsi che tutto si svolgesse per il meglio, decise di appostarsi dietro un enorme cartellone pubblicitario, sperando in qualche inseguimento come quelli dei film che gli piacevano tanto.
Non poteva immaginar che questa volta sarebbe stato accontentato.
Era trascorsa circa un’ora dall’inizio dell’appostamento. Kurtighan stava sonnecchiando quando ad un tratto riaprì gli occhi, catturato da un forte rombo di motore. Dopo alcuni istanti vide, davanti a sé, sfrecciare una splendida Mustang a tutta velocità. Era proprio quello che ci voleva: una bella multa per eccesso di velocità ad un ragazzino sicuramente sballato. Accese la sirena, e si lanciò all’inseguimento.
Donald Lowell si accorse subito di essere inseguito dalla polizia, decise quindi di fermarsi per divertirsi un po’.
La volante di Kurtighan si accostò, affiancando Lowell. L’agente scese dall’auto e si diresse a passo lento verso la Mustang.
Giunto davanti al finestrino, Kurtighan squadrò il ragazzo: notò il particolare vestiario e vide che sudava copiosamente dalle mani ancora poggiate sul volante. Sembrava sudi giri. Pensò subito che fosse strafatto.
«Sa a quanto stava andando?» esordì, blocchetto in mano. «No, me lo dica lei» rispose arrogante Donald, senza neanche voltarsi. «Bene, facciamo gli spiritosi» ironizzò l’agente. «Ho qui una bella multa per lei. Mi mostri patente e libretto, prego» disse cercando di sembrare il più cortese possibile. Donald esitò. Non aveva né patente né libretto. «Sa agente» disse per temporeggiare, «Oggi è il suo giorno fortunato». «Cosa?» chiese lui stranito. «Di cosa sta parlando?» «Dovrebbero premiarla» continuò, «in quanto ha avuto a che fare con Donald Lowell. Non se lo dimentichi. Riceverà sicuramente la medaglia al merito…» «Cosa stai blaterando?» urlò Kurtighan per zittire il ragazzo. «Basta, scendi dall’auto» intimò estraendo la pistola d’ordinanza. «Non è così facile» disse Donald, poggiando delicatamente il piede sull’acceleratore. «La medaglia dovrà guadagnarsela!» Esclamò.
In quell’istante schiacciò a fondo il pedale e schizzò a tutta velocità, lasciando Kurtighan sul posto. Prontamente però, l’agente montò subito in macchina ed iniziò ad inseguirlo.
«Che cosa…» farfugliava Kurtighan mentre tentava di non perdere di vista la Mustang davanti a lui. «Quel ragazzo è pazzo… cosa diavolo sta succedendo». Entrambi si immisero su una vecchia stradina in disuso diretta verso ovest.
«Ho vinto!» esclamò Daniel Lowell eccitato, mentre l’autopattuglia lo inseguiva a tutta velocità. «Il poliziotto è mio! Ormai ho vinto il Gun Game»
E sfrecciò verso casa.