Un nuovo inizio

Dopo qualche minuto di cammino, Kenny giunse nei pressi del covo principale della famiglia Kallaghan: un palazzo in fondo a Shadows Street, alto una ventina di piani, dipinto di color giallo canarino. Il palazzo ospitava, oltre al boss, i suoi più stretti collaboratori. Durante il tragitto aveva già delineato nella sua mente un piano ben preciso per ucciderli tutti. A pochi passi da lui, davanti all’entrata, due gorilla sbarravano il passo a chiunque avesse l’intenzione di entrare. Kenny Portland, però, sapeva già come sbarazzarsene.

Dopo essersi appostato dietro un cassonetto dell’immondizia, squadrò la situazione, pistola in pugno. «Bene» si disse, «ora devo solo togliere di mezzo quei due…» Si alzò e si diresse a passo svelto verso il portone. «Scusate!» urlò ad alta voce diretto ai due uomini. «Ho un problema, potreste aiutarmi?» Mentì. In quella situazione, Kenny si dimostrò essere un ottimo attore. «Sparisci pivello!» fu la risposta chiara e pulita del più grosso dei due. «E non farti più vedere!» «Tu non sai chi sono io» li provocò Kenny, pistola in pugno sotto il giacchetto. «Sono un vecchio amico del vostro capo». Il gorilla più alto sgranò gli occhi, dubbioso. «Te lo ripeto per l’ultima volta: sparisci se non vuoi farti male!» Il compare si lasciò scappare una risatina. «Ok…» disse Kenny voltandosi «… ma salutatemi Bobby!» I due, a quel punto, realizzarono che quello che avevano di fronte non era un semplice scocciatore. Solo pochissime persone chiamavano il loro boss in quel modo confidenziale. Uno dei due estrasse in un lampo una pistola calibro 22, ma Kenny Portland fu più veloce di lui: prima che se ne accorgessero, si ritrovarono entrambi con una pallottola in testa. Kenny ripose la pistola e si guardò in giro, sperando che nessuno lo avesse visto; per sua fortuna il quartiere era completamente deserto a quell’ora. Ora aveva la strada libera fino all’ufficio di Robert Kallaghan.

Dopo aver nascosto i cadaveri, sfondò la porta con un calcio ed entrò. Si ritrovò in un enorme stanzone ben arredato, con una rampa di scale placcate in oro che conduceva al piano di sopra. «Vedo che ti è convenuta la mia assenza» disse ironico Kenny. «Ma ora la situazione cambierà». Si servì un liquiore al mini-bar, e imbolccò le scale con la pistola in mano.

A pochi isolati di distanza dal palazzo Kallaghan, il gruppo di ricerca formato dal dottor Kevinson, Malcolm McDoweld e Jason Bitter, correva in tutte le direzioni alla ricerca dell’evaso. Giunti nei pressi del Caffé Dakota, notarono l’enorme trambusto che regnava all’esterno del locale: molte persone stavano sul marciapiede parlando tra di loro agitate, mentre alcuni poliziotti ne raccoglievano le dichiarazioni. «Qui è successo qualcosa» disse Bitter agli altri, avvicinandosi al marciapiede di Sunny Street. «Spero solo che non sia stato…» «Mi scusi» chiese cortese Kevinson ad un uomo alto, a prima vista sulla cinquantina, intento a spazzare per terra proprio di fronte all’entrata del Caffé Dakota. «Sa dirmi cosa è successo qui?» «Certo» rispose lui. «Sono il proprietario… diciamo che c’è stato un piccolo incidente» tagliò corto facendo capire di non voler parlare troppo. «È molto importante per noi sapere con precisione cosa sia accaduto» s’intromise Malcolm. «Per favore». «Beh, come vi ho già detto c’è stato un incidente… un omicidio » sussurrò infine. «A dire il vero un quadruplo omicidio» si corresse. I tre si guardarono. «Può dirci di più?» intervenne Jason. «Sapete» riprese l’uomo, che parlava come se stesse compiendo un’enorme fatica, «i miei clienti non sono proprio dei santarellini… uno di loro ha regolato un paio di conti che aveva in sospeso. Tutto qua» concluse. Ora erano sicuri di essere sulle tracce di Kenny. «Sa dirci dove è andato questo suo cliente?» azzardò Jason. «Non lo so, è uscito dal locale e non l’ho più visto. Anche la polizia lo sta cercando» ed indicò alcuni agenti parlare con la radio della loro auto-pattuglia. «Sono sicuro però, che sia andato ad estirpare l’erbaccia alla radice» disse facendo capire ai tre che non avrebbe spiccicato una parola di più. «La ringrazio» disse Kevinson allontanandosi insieme agli altri due. «Andiamo di qua» propose Jason indicando la strada di fronte a loro. E s’incamminarono giù per Shadows Street. «Begli amici che hai, Kenny» disse tra sé e sé Frank Zappa osservando i tre andare via. Si voltò e si reimmerse nell’oscurità del suo cupo locale.

Dopo aver percorso alcuni isolati, i tre avevano quasi raggiunto il palazzo Kallaghan, ignorando però che l’uomo che stavano cercando si trovasse nei paraggi. Quando ebbero quasi superato l’edificio, il cellulare di Jason Bitter squillò per la seconda volta quel giorno. Si fermarono tutti, speranzosi in qualche buona notizia dagli altri. «Pronto?» rispose Jason. «Jason sono io, Tom» disse la voce dall’altra parte. «Novità? Noi c’eravamo quasi, ma abbiamo perso le sue tracce… se solo fossimo arrivati prima…» «Ho un’informazione utile, credo» comunicò lui. «Io e Thomas abbiamo fatto delle ricerche approfondite su Kenny: siamo andati al suo vecchio quartiere e lì siamo venuti a conoscenza di una storia molto interessante». «Forse ci siamo» sussurrò Jason agli altri due, che intanto ascoltavano l’amico parlare. «Un tizio, in cambio di un centone, ci ha raccontato che il nostro amico Kenny Portland era un uomo molto potente da queste parti. Noi lo sappiamo bene…» disse riferito al fatto che erano stati proprio lui e Jason a catturarlo e a portarlo a MADHOUSE, «… ma a quanto pare era molto più importante di quanto pensassimo». «Allora?» chiese Jason impaziente.
«Era un boss. Aveva un’intera famiglia ai suoi piedi, la famiglia Portland. Pare che il padre fosse uno dei più pericolosi criminali che questa piccola città abbia mai conosciuto». L’informazione stupì alquanto Bitter, che la comunicò subito agli altri due. «E non è tutto» disse Tom fiero di aver reperito queste informazioni. «Proprio nel periodo in cui l’abbiamo preso, era in guerra con una famiglia nemica, i Kallaghan». Jason Bitter aveva gia sentito questo nome, ma era ancora scosso per il fatto che era venuto a conoscenza poco prima: aveva davvero catturato un boss mafioso. «La famiglia Kallaghan» continuò Tom al telefono, «ha il suo quartier generale a Soho». «Noi ci troviamo proprio a Soho!» esclamò Bitter. «Anche Kenny è sicuramente passato da qui: ha ammazzato quattro persone in un locale a pochi isolati da dove ci troviamo ora». «Bene, allora potete ancora riuscire a prenderlo» sentenzò Tom. «I Kallaghan vivono tutti in un palazzo denominato ‘La Tana’: è alto più o meno venti piani ed è di color giallo chiaro. Spero che riusciate a trovarlo al più presto». Jason Bitter, dopo aver ascoltato il collega, sgranò gli occhi, osservando attentamente il palazzo a cui si era appoggiato per parlare al telefono. «Ci siamo».

Dopo aver comunicato tutto quello che gli era stato riferito a Malcolm e a Kevinson, agganciò il telefono e si portò vicino all’entrata dell’enorme edificio. «Non ci posso credere…» sussurrò Kevinson «… è davvero qui dentro». «Credo proprio di sì… sarà venuto per uccidere il boss» disse Jason. «Non ci resta che entrare e andare a prenderlo». I tre, impugnarono le loro pistole, e varcarono lentamente la soglia.

«È passato di qui» sussurrò subito Malcolm osservando il piano bar di fronte a loro. «Kenny amava solo tre cose della vita: le donne, il denaro, e il daiquiri con ghiaccio» continuò indicando il bicchiere mezzo pieno lasciato da Portland poco prima. «Saliamo» ordinò Kevinson, ormai certo di aver compiuto la missione.

Al secondo piano di palazzo Kallaghan, Kenny Portland camminava con passo felpato verso l’unica stanza dalla quale sentiva provenire delle voci. Riconobbe immediatamente quella del suo acerrimo nemico Robert Kallaghan. Ancora con la pistola in pugno, pensò a come agire: entrare direttamente e minacciarlo oppure studiare bene la situazione? Kenny Portland conosceva bene sé stesso e sapeva di essere uomo molto impulsivo.

Dopo essersi accertato che nella stanza erano presenti tre uomini, decise di entrare e sfruttare l’elemento sorpresa: dopo aver ucciso i due, avrebbe fatto quattro chiacchiere col suo vecchio amico. Arrivato di fronte alla porta, posò la mano sinistra sul pomello, ed iniziò a girarlo lentamente. Un istante dopo era dentro la stanza: c’erano, come aveva previsto, tre uomini, uno dei quali seduto ad un’enorme scrivania intarsiata: era Robert Kallaghan. In quei pochi istanti, prima che i suoi avversari si rendessero conto di ciò che stava accadendo, Kenny sparò con precisione maniacale ai due, riconoscendone uno come un suo vecchio affiliato passato alla concorrenza. Un attimo dopo i due uomini giacevano distesi sul pavimento in una pozza di sangue, e Robert, prima che potesse prendere la pistola dal cassetto di fronte a lui, era già sotto mira. «Finalmente ci rivediamo » esordì Kenny, pistola dritta in faccia a Robert. «Kenny» sussurrò lui seduto sulla comoda poltrona, «suppongo che prima o poi ci saremmo rivisti». «Non fare lo spiritoso» tagliò corto l'uomo. «Sai perché sono qui». «Per uccidermi?» azzardò ironico. Robert Kallaghan non aveva paura di morire. «Non solo… voglio riprendere ciò che mi spetta» disse Kenny. «Se io non mi fossi ‘assentato’ tu a quest’ora non saresti nulla!» «Probabile» lo sfidò Robert. «Ho saputo approfittare della situazione. Non è mica colpa mia se ti hanno rapito». «Non mi hanno rapito!» sbottò Kenny, sempre di fronte a Robert. «Ho solo avuto delle cose da fare, ma ora sono qui…. e rivoglio tutto ciò che è mio». Robert Kallaghan sapeva che la sua fine stava arrivando. «Per ricominciare tutto da capo sai qual è la prima cosa che devo fare…» sussurrò Kenny, sempre con la pistola in pugno. Kallaghan, leggendo in faccia a Kenny la più completa fermezza, ebbe, per la prima volta nella sua vita, un po’ di paura. «Fa quello che devi» disse Robert chiudendo gli occhi e accettando il uso destino, rimanendo seduto alla sua scrivania. «Io avrei fatto la stessa cosa…» Kenny Portland, si passò una mano in fronte per asciugarsi il sudore, ed iniziò ad imporre una leggera pressione sul grilletto della pistola. La vita del boss stava per giungere al capolinea. «Muori, brutto figlio di…» S’interruppe quando udì qualcosa provenire da fuori la stanza. «Kenny! Sappiamo che sei qui!» urlò una voce familiare. Era il dottor Richard Kevinson. «Maledizione» imprecò, ancora con la pistola puntata su Robert. Quest’ultimo riaprì gli occhi, sorpreso di essere ancora vivo. «Come faccio ad uscire da qui?» chiese Kenny, disperato. «Cosa… non…» farfugliò Robert scioccato. «Dimmi come diavolo faccio ad uscire da qui il più in fretta possibile! Se mi aiuti ti risparmierò la vita!» sbottò.

«È qui!» urlò Malcolm udendo la voce del suo amico provenire da una stanza chiusa al secondo piano. Gli altri si fiondarono da Malcolm, decisi a rischiare il tutto per tutto. Kevinson vide la porta chiusa. «È lì dentro» confermò Malcolm. «Non è solo» puntualizzò. «Kenny! È finita ormai!» urlò Kevinson, prendendo in mano la pistola. Gli altri fecero lo stesso. Dopotutto erano all’interno di un covo criminale. Alla richiesta di Kevinson non ci fu nessuna risposta. «Entriamo!» ordinò avvicinandosi alla porta. «Via!» urlò sfondandola con un calcio, e coprendosi immediatamente con la pistola. Alle sue spalle Malcolm e Jason.

«Non è possibile» sussurrò Malcolm appena entrato. «Come ha fatto a fuggire…» Di fronte al gruppo c’era un uomo, ma non era colui che stavano cercando. «Dove è andato?» chiese Kevinson, puntandogli contro la pistola. «Parla!» «Mi ha risparmiato » sussurrò Robert, ancora seduto alla sua scrivania. «Non posso crederci». In quel preciso istante l’attenzione del dottor Kevinson fu colta da un quadro appeso sulla parete di fronte a lui, proprio dietro l’uomo, che ondeggiava, come se qualcuno lo avesse appena riappeso. Kevinson si fiondò dietro la scrivania, mentre gli altri tenevano sotto mira Kallaghan. Il dottore, allora afferrò il quadro e lo tolse dal suo sostegno. «Non ci posso credere...» sussurrò osservando un buco scavato nella parete proprio di fronte a lui. «Che cosa…» «Sono pur sempre un boss» disse Robert voltandosi verso Kevinson. «Devo essere preparato a tutte le evenienze».

Dopo aver legato Robert Kallaghan alla sua poltrona e chiamato la polizia, i tre si introdussero nel cunicolo all’inseguimento di Kenny Portland. Entrati, si lasciarono andare, scivolando fino all’uscita. Atterrati sul retro del palazzo su un piccolo materasso, si rialzarono e corsero nell’unica direzione possibile: una piccola stradina di fronte a loro. In quel momento, una leggera pioggia iniziò a cadere su Jefferson City.

A pochi metri di distanza, in un’altra stradina deserta, Kenny Portland fuggiva sotto la pioggia, ancora con la pistola in mano, diretto il più lontano possibile. Sapeva che aveva tre o più uomini alle calcagna. Imboccata la settima strada, giuse in una zona della città che non conosceva, rifugio di spacciatori e drogati, quasi sempre deserta. Dopo pochi passi si ritrovò, con sua grande sorpresa, in un vicolo cieco: di fronte a lui un cancello che avrebbe potuto scavalcare con facilità. Si avvicinò piano, ma un rumore alle sue spalle lo fece voltare di colpo.

Ormai era troppo tardi.